Una regione istriana poco nota
Un paesaggio ondulato di colline che si elevano dolcemente fino a oltre 600 metri, ora di nuda roccia, ora coperte da prati o da una vegetazione di arbusti spinosi e erbe aromatiche; ogni tanto qualche boschetto di aghifoglie; poche le strade, generalmente a una sola corsia, e radi gli automezzi; niente case sparse o campi coltivati; pochi villaggi semideserti dispersi sul territorio … e silenzio.
Così si presenta il paesaggio della Ciceria o Altopiano dei Cici (o Cicci) e Ciribiri, regione dell’Istria Settentrionale, denominata anche “Istria Bianca”, che si estende dalla Liburnia al Carso Triestino e salda la penisola istriana a quella balcanica e all’Europa. Da Trieste si può raggiungere questa regione da molte parti, il 4 ottobre noi abbiamo fatto l’itinerario Castelnuovo (Podrad), Bogliuno (Boljun), Lupogliano (Lupoglav), Lanischie (Lanišće), Gelovizze (Jelovice), da dove siamo tornati in brevissimo tempo a Trieste.
Ma chi sono questi Cici e Ciribiri che abitano/abitarono in questo territorio?
Sono popolazioni balcaniche (della Romania, del Montenegro, della Bosnia, dell’Erzegovina, della Grecia) di antica provenienza Valacca che, a partire dal XV secolo, sono scese sull’isola di Veglia e poi nelle zone disabitate dell’Istria sotto la spinta delle invasioni turche e in risposta al richiamo della Repubblica di Venezia e dell’Impero Austro-ungarico, preoccupati dallo spopolamento della regione a causa di guerre, malattie e carestie.
Secondo un’altra tesi, ancora da dimostrare, essi sarebbero invece ciò che rimane della popolazione romanza dell’Istria Bianca, popolazione autoctona, conservatasi come un’isola nelle aree che fin dal IX secolo vennero popolate dagli slavi.
Nessuna delle due versioni è assolutamente certa perché non esistono testimonianze scritte della loro storia ma la più accreditata è la prima.
Nel corso dei secoli tutti questi gruppi etnici si sono completamente slavizzati, eccetto quello romeno, che ha conservato anche la lingua originale (po vlaski), che i linguisti nel XIX secolo hanno denominato istro-romeno, anche se – a detta degli esperti – non è certo il romeno di Bucarest perché, nel tempo, è stato talmente contaminato dalle parlate della maggioranza – e soprattutto dal dialetto ciakavo – da essere, oggi, una vera e propria reliquia linguistica, parlata da 250 persone.
In particolare, i Cici erano raccolti nei paesi di Slun, Dane, Brest, Vodice, Trstenik, Raspor, Rakitovac, Jelovice, Podgace, Borgudac; i Ciribiri erano invece raggruppati alle pendici del Monte Maggiore e del Planik e nei villaggi del comune di Valdarsa-Susnjevice (Susnjevica, Zejane, Poljane), istituito nel 1922 proprio per assicurare una miglior tutela etnico-culturale di questa popolazione.
Alcune cifre renderanno l’idea dell’andamento demografico della popolazione in questa zona: fra le due guerre mondiali i suoi abitanti erano 6.000. Nel 1910 a Slun c’erano 500 abitanti, nel 1935 erano 700, mentre 3.000 erano le pecore e 100 le vacche.
Nel 1940 in Ciceria si contavano 8.000 pecore.
Attualmente gli abitanti della zona sono 700 con un’età media di 65 anni; altrove ho trovato scritto, e riportato sopra, che coloro che parlano oggi l’istro-romeno sono 250, ma le due affermazioni possono essere compatibili.
Per conservare la loro identità etnica e linguistica, oggi in grave pericolo di estinzione, gli istro-romeni hanno fondato nel 1994 l’associazione culturale “Andrei Glavina”. La sede prescelta è stata Trieste per i costanti e antichi legami della città con la Ciceria. Uno di codesti legami - davvero insolito - era costituito dal fatto che nel secolo scorso 300 bambini trovatelli furono ospitati, in cambio di una modesta retta corrisposta dall’Istituto dei poveri, da famiglie di Valdarsa, dove alcuni rimasero anche dopo raggiunta la maggiore età.
La principale occupazione dei Cici e Biribiri era la pastorizia, seguita dalla fabbricazione dell’aceto e del carbon dolce, che veniva poi trasportato nelle città assieme alla legna nei caratteristici carri cici. I triestini più anziani ricordano ancora il grido “Carbuna!” che annunciava il loro passaggio col prezioso carburante.
Oltre alle pecore, i Cici allevavano bovini e ogni famiglia possedeva almeno un somaro.
Interessante è la loro organizzazione fondiaria e gli usi e i costumi per la gestione del territorio, in vigore prima dell’occupazione comunista, secondo i quali i terreni coltivati a orto, i boschi e le zone a valle destinate alla produzione di foraggio erano di proprietà familiare mentre i pascoli, utili all’attività primaria della comunità, erano gestiti in comune e denominati “Comunelle”. Interessanti anche gli usi inerenti la cura del bestiame secondo i quali i bovini erano condotti al pascolo da salariati; i somari alternativamente dai vari proprietari mentre le pecore erano sempre governate, condotte al pascolo e alla transumanza esclusivamente dai proprietari.
L’alimentazione era costituita da ortaggi e carne di pecora. Le pecore per uso familiare venivano macellate il 21 settembre, per la fiera di S. Matteo, fatte a pezzi che venivano conservati in recipienti di legno, detti “sec”, immersi nel grasso sciolto di pecora. La carne veniva poi consumata esclusivamente lessata in un denso brodo con patate e verze. La cottura della carne arrostita era sconosciuta. L’agnello veniva venduto.
Il commercio era basato sullo scambio dei prodotti della pastorizia con altri generi alimentari e il prezioso sale. I formaggi venivano portati e barattati al mercato di Pinguente ma, dopo la costruzione della ferrovia Pola-Trieste, il latte veniva portato ogni giorno nelle città.
I pastori Cici, come tutti i pastori, conoscevano ad una ad una tutte le loro pecore e le loro caratteristiche; ognuna aveva un nome.
L’anno del pastore era scandito dalla transumanza, il viaggio che portava i pastori Cici e Biribiri a scendere con le loro greggi dall’altopiano del Monte Maggiore sferzato dalla bora alla pianura.
Secondo la testimonianza rilasciata nel 1992 da un pastore di Slun, si partiva dal paese ogni anno in una data precisa, il 18 novembre, e si ritornava il 1° maggio. Si partiva alle cinque di mattina e si eseguiva sempre lo stesso percorso: da Slun verso la ferrovia fino a Slope - al confine tra Slovenia e Croazia - poi verso Pinguente e Capodistria, Socerga e poi, attraverso un bosco, a Santa Maria - in Slovenia – poi verso Sirci e Kucibreg per arrivare infine a Momiano. Un tragitto di 53 km.
Le mete della transumanza dei Cici erano il buiese fino al mare, e tutta l’istria fino al fiume Leme; le mete dei Ciribiri erano invece Rovigno, Valle, Promontore e Medolino.
Per allietare le feste c’erano le “vidolice”, melodie prodotte dalle “surle” - specie di flauti che emettevano contemporaneamente suoni di due tonalità - e i canti degli uomini con l’accompagnamento del “mih”, specie di cornamusa ricavata dagli stomaci della pecora.
Oggi l’Altopiano è quasi deserto a seguito dell’abbandono dei suoi abitanti, attirati a valle e dalle città da condizioni di vita più facili. Ciò – come afferma Livio Dorigo - ha provocato il degrado di tutto l’ambiente con la sparizione della landa carsica, paesaggio di aspetto sub-steppico, formato prevalentemente da erbe graminacee, formatosi a seguito dell’azione dell’uomo sugli originali boschi carsici e poi mantenuto grazie alla secolare presenza dell’uomo, degli animali e degli insetti – come la pecora, la capra, il bovino, l’ape - che egli alleva e impiega per il suo sostentamento e lavoro. I suddetti animali possono essere considerati i custodi della landa carsica: l’ape perché perpetua l’impollinazione delle essenze vegetali; la capra perché ne controlla lo sviluppo eccessivo col pascolamento; la pecora perché brucando le erbe con le labbra le umetta con la saliva, che contiene particolari ormoni che stimolano la crescita delle essenze che ha scelto per la sua alimentazione.
Con la sparizione dal territorio dell’uomo e della pastorizia, che era la sua attività principale, è morta una cultura ma è stato anche sovvertito tutto l’ambiente perché è morto il prato-pascolo, morte favorita pure dal fatto che è quasi completamente sparita anche l’ape, a causa dell’uso indiscriminato di sostanze chimiche, per cui le piante la cui impollinazione è dovuta al vento, come le graminacee, hanno avuto il sopravvento su quelle che vengono impollinate dall’ape, come le leguminose. Modificata e alterata risulta anche la presenza dei piccoli mammiferi.
Per recuperare quest’interessante ambiente bisognerebbe riportarvi l’uomo con le sue attività tradizionali.
Carmen Palazzolo Debianchi