di Carmen Palazzolo
Ho appena letto su uno dei periodici del mondo giuliano-dalmata, e invero un po’ in ritardo, la descrizione delle diverse cerimonie svoltesi nella città di Trieste e altrove in Italia in ricordo della diaspora giuliano-dalmata e sono rimasta colpita da un fenomeno in corso da tempo, forse da sempre, ma che ora mi ha particolarmente colpita: la presentazione dell’esodo proprio e della propria famiglia mettendone in rilievo a mio avviso esageratamente la motivazione, la nostalgia per il suolo natio, l’accettazione nel luogo di residenza prescelto, i problemi dell’ambientazione in un ambiente nuovo e differente da quello della città o paese natali.
Intanto, consapevole del fatto che io, come tutti gli esuli ancora viventi, al tempo dell’esodo eravamo dei bambini o dei giovani con davanti una vita ancora tutta da costruire e che chi il disagio lo subì invece pesantemente furono le persone della media età, come i miei genitori, che avevano già un progetto di vita che l’invasione dei partigiani jugoslavi interruppe costringendoli a costruirne uno nuovo, magari diverso, inaspettato, al quale non erano preparati. E penso alla dignità con cui i miei genitori vissero la situazione: papà aveva un lavoro del quale modestamente vivevamo, perciò essi non chiesero mai un sussidio né pecuniario né d’altro genere e con pazienza cercarono di adattarsi nel nuovo ambiente in cui erano finiti a vivere.
E anch’io sono stata chiamata nel tempo a parlare del mio esodo, che ho descritto senza drammatizzarlo, e non sono stata richiamata perché una descrizione pacata non impressiona le persone. Bisogna metterci tinte forti. Non importa che siano veritiere. Ma di questo io mi vergogno. Come mi vergogno di chi si fa fotografare con la fotografia della nota parente martire, di chi ha descritto le sue vicende personali nel modo di cui sopra e gira l’Italia per presentarle.
Tutto questo toglie dignità all’esodo e di esso, perciò, io mi vergogno.