di Carlo Cremonesi
Non altro problema sembra oggi preoccupare realmente l'Italia se non quello della migrazione. Nella generale convinzione è una vera invasione che, peraltro, ha una sola origine: l'Africa! Ora, a parte la concreta dimensione del fenomeno, ch'è argomento a sé, a livello sociale si registra, di fatto, un uniforme argomentare intorno ad esso. Disinteresse per la condizione di questa massa di diseredati che approdano sulle nostre coste, senza nulla possedere se non quello che indossano. Noncuranza per le storie di questi uomini in fuga da miseria, guerre, persecuzioni, a reale rischio della propria vita. Disconoscenza della storia o, almeno, della realtà attuale dell'Africa. Da qui, nasce la paura per il nero straniero africano. Eppure, l'Africa è un continente lontano una spanna dall'Italia, è meta di turismo di ogni bandiera, è storicamente legato all'occidente, pur tuttavia l'interesse a saperne di più non è pari a quello riservato, ad esempio, per gli Stati europei o per l'America o, magari, per l'Asia.
Questo movimento migratorio nasce dall'interno dell'Africa, approda in Italia, prima ma non definitiva meta, perché logisticamente prossima alle coste libiche da cui parte, ed ha per destinazione l'interno Europa. L'Africa è un luogo di complessità molteplici non portate a sintesi. Terzo continente con i suoi 30.221.532km², ha una popolazione al 2017 pari a 1,2 miliardi di persone e a breve proiettata oltre i due miliardi, ha un sistema linguistico che conta circa duemila distinti idiomi, è formato da 54 Stati di cui circa la metà sono tra i paesi più poveri della Terra. È un paese ricco di risorse naturali - idriche, forestali, minerarie, energetiche -, ma non uniformemente distribuite sul territorio e mal gestite a causa dell'avvicendarsi delle dominazioni straniere e della sconveniente realtà politica interna. I paesi africani hanno un'economia sostanzialmente basata sull'esportazione delle materie prime e non sulla loro trasformazione in prodotto finito non possedendo le necessarie costose tecnologie occidentali e la relativa indispensabile formazione tecnica. Questa struttura economica, che non fa sistema nel continente, priva ogni settore sociale, dalle istituzioni pubbliche al privato, del suo ritorno economico sul territorio, della forza di piena contrattazione sui mercati internazionali ed indebolisce ulteriormente le loro economie domestiche non sorrette, per di più, da strutture finanziarie locali forti ed affidabili. Da qui la necessità per gli Stati ed investitori privati di ricorrere ai prestiti presso le banche estere e le preposte istituzioni internazionali, FMI (Fondo Monetario Internazionale) incluso, alle cui austere condizioni devono necessariamente sottostare. Questi enti operano inevitabilmente con la logica liberista occidentale che, però, non è facilmente innestabile nelle realtà locali: continue guerre in loco, amministrazioni pubbliche praticamente inesistenti, élite arroccate sui propri privilegi, gran parte della popolazione esclusa dall'economia formale e costretta a lavorare in pessime e incontrollate condizioni per sopravvivere. Sono, pertanto, paesi fortemente indebitati, in particolare quelli della zona subsahariana, ma che, colmo delle contraddizioni, attratti dalle prospettive della finanza globalizzata investono gran parte delle poche ricchezze (circa il 40%, secondo alcuni studi) sui mercati finanziari internazionali, anziché reinvestirle in loco. Un ben misero meccanismo questo, peraltro non sempre premiante, che seduce ancor più i deboli: denaro che produce altro denaro, denaro simbolo e segno di ricchezza, irresistibile avidità per maggiori profitti in assenza di lavoro reale.
C'è una realtà economica continentale slegata e farraginosa che, comunque, a macchia di leopardo ha qualche positivo segnale di ripresa, ma non produce alcun effetto di trascinamento verso i paesi più arretrati: c'è il sud Africa, eredità di Mandela, una grande potenza regionale, ma in sé chiusa; ci sono gli Stati del nord Africa che si affacciano sul mar Mediterraneo, ma con interessi volti altrove, perché da anni economicamente legati all'Europa e, in genere, imbrigliati in molteplici relazioni, non ultime quelle militari, con il ricco occidente.
L'Africa è stata ed è terra di grandi movimenti migratori sia interni sia esterni. Nella seconda metà del 1800 con la scoperta di miniere d'oro e diamanti in Sud Africa si generò una massiccia migrazione di manodopera dalle vicine regioni, a cui si aggiunsero dall'esterno, a maggior grave misura, migranti di ogni risma e da ogni dove attratti da una ricchezza a portata di mano, ancor più redditizia per lo sfruttamento incontrollato delle risorse umane in loco. È terra depauperata di diversi milioni di uomini tra il 1500 e 1900 forzatamente deportati nel nuovo mondo, ma anche in Europa, nel Medio Oriente e nelle regioni del Golfo Persico, posti in vendita come "schiavi neri" ai migliori compratori in veri e propri mercati.
Al termine della seconda guerra mondiale si pongono le premesse per la decolonizzazione, che si avvia intorno al 1950. Circa dieci anni dopo molti paesi conquistano la sovranità nazionale, mentre Angola e Mozambico la realizzeranno negli anni settanta con la fine disordinata della dittatura di Salazar in Portogallo. Sul finire dell'ottocento le potenze coloniali stabilirono i confini dei propri possedimenti al solo scopo di salvaguardarli, senza alcun riguardo alle problematiche e all'omogeneità delle etnie presenti sul territorio. Questi stessi confini negli anni settanta delimitarono i territori nazionali e la giurisdizione dei nuovi Stati indipendenti. Dopo circa un decennio di euforia democratica, però, le élite al potere non sono state capaci di emanciparsi e superare gli squilibri già imputabili al colonialismo e alla tratta degli schiavi. Piuttosto, gli Stati africani emersi dall'era coloniale sono stati in buona parte guidati da dittatori o clan di non specchiata legalità e moralità, che hanno dilapidato le ricchezze e accumulato per sé quanto più possibile. A tal proposito basta ricordare alcuni nomi: Bokassa in Congo, dal 1966 al 1979, responsabile di stragi ed eccessi di ricchezza; Idi Amin Dada in Uganda, dal 1971 al 1979, responsabile di stragi e persecuzioni ed accusata persino di cannibalismo; Mobuto in Zaire, dal 1965 al 1997, giunto al potere con un golpe, fu corrotto e violento; Mugabe in Zimbabwe, dal 1980 al 2017, accusato di torture, violenze e corruzione; Bashir in Sudan, dal 1989 al 2015, condannato dal Tribunale Internazionale dell'Aia per le stragi in Darfur.
Nel lungo periodo della "guerra fredda" nel secondo dopoguerra, in cui si manifesta la forte rivalità politica ed ideologica fra est ed ovest, è l'URSS che negli anni sessanta cerca propri spazi nella corsa ai paesi in via di sviluppo. Malgrado mal conclusi precedenti tentativi di instaurare il socialismo in alcune zone africane, nuovamente punta con decisione verso l'Africa e a metà degli anni settanta riesce nel suo intento in Etiopia e in Africa Australe (Angola e Mozambico). Solo la complessa ed articolata realtà locale, ancora una volta misconosciuta, e la propria difficile situazione interna, testimoniata dalla caduta del muro di Berlino (1961-1989), la costringono ad abbandonare il progetto. Nessuna restituzione di quanto già preso, nessun sostegno per il prosieguo. Puro abbandono dei nativi.
In questo XXI secolo è la Cina, già potenza in Asia, ad avere interesse per l'Africa. Non è sola. Trascina con sé le nuove potenze emergenti: India, Giappone, Corea, solo per citarne alcune. La sua arma è il denaro. Grazie alle deregolamentazioni in ambito finanziario, un aspetto della globalizzazione, possiede beni materiali e titoli di borsa diversi in quasi tutti i continenti. In Africa, praticamente da tutti abbandonata, ha trovato un'economia asfittica con cui facilmente tratta l'acquisto a buon prezzo delle materie prime ed energetiche necessarie alla sua economia, di infrastrutture abbandonate, di miniere semichiuse, di vasti terreni abbandonati, di piantagioni di vario genere da sfruttare. Se tutto ciò produrrà ricchezza per l'Africa lo si vedrà nel tempo, per ora la popolazione locale accoglie con favore il profluvio di denaro.
Questi sono i mali dell'Africa: instabilità e debolezza dei suoi sistemi politici, guidati da uomini interessati di fatto alla conquista del potere assoluto, in una logica di scontro tribale; la "maledizione" delle sue ricchezze naturali, che generano un distruttivo clientelismo; la violenza in ogni forma, che alligna nella maggior parte dei territori, opprime le già povere economie domestiche, soffoca la parte più povera della popolazione, aggrava le già difficili relazioni sociali interetniche e i processi di inclusione dei paesi più interni con gli altri che li circondano, che godono della ricchezza dello sbocco sul mare e abusano della propria privilegiata posizione con l'imposizione di dazi e tasse varie. In questo quadro non è ultimo il problema della crescita demografica, specie a livello degli strati sociali meno abbienti, a fronte di un'Europa, Italia compresa, alle prese con una natalità scarsa e una crescita praticamente zero se non addirittura negativa.
L'insieme di tutte queste ragioni, storiche ed attuali, è alla base del movimento migratorio intercontinentale, dall'Africa verso l'Europa attraverso l'Italia. L'Italia, in particolare, non è un paese di recente immigrazione. Questa storia nasce significativamente sin dagli anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo, si consolida successivamente fine anni ottanta e inizio anni novanta. Non è qui lo spazio per rendere conto della storia dell'immigrazione straniera in Italia, è però possibile e corretto affermare che questo fenomeno è sempre stato gestito con logiche emergenziali: dalla legge Martelli (fine anni 80) alla Bossi-Fini (2002), per arrivare alle attuali politiche migratorie restrittive e ancora in itinere. Manca, pertanto, un reale progetto di lungo respiro di gestione dei flussi e di integrazione degli stranieri. La coscienza sociale è così abbandonata a se stessa, ancor più perché assente un qualsivoglia dibattito pubblico che informi in modo esaustivo e chiaro su quanto avviene e perché sulle nostre coste, nel nostro paese, nelle nostre città, soprattutto a partire dalla crisi economica del 2008 che colpisce indistintamente tutti e dalle conseguenze delle primavere arabe che mettono in discussione gli equilibri internazionali e la frontiera sud del mediterraneo.