di Carmen Palazzolo
La notizia della restituzione alla comunità slovena del Narodni Dom, apparsa in questi giorni su Il Piccolo, mi induce ad alcune considerazioni, personali e comuni, non di carattere storico. Sul possibile significato storico del fatto sono stati già gli storici Pupo e Vinci a esprimere le loro riflessioni.
Molto più modestamente io vorrei scrivere di alcuni aspetti della convivenza fra la maggioranza italiana e la minoranza slovena a Trieste, e in particolare su quello esteriore e a mio avviso più appariscente, che è la lingua. Gli sloveni residenti a Trieste sono infatti generalmente perfettamente bilingui e quindi, specie quelli più colti, in grado, se lo desiderano, di mimetizzarsi con la componente italiana, cosa che quella italiana non può fare fra gli sloveni, perché essi non parlano la lingua slovena.
Nelle scuole italiane, in cui da qualche anno è stato introdotto lo studio obbligatorio di una lingua straniera fin dai primi anni della scola primaria, questa lingua non è ordinariamente quella slovena. Questa sarebbe stata invece un’occasione per introdurla, e dalla porta principale. Questa ignoranza della parlata di una parte della popolazione convivente sullo stesso territorio, così concepita, rende la maggioranza svantaggiata. Ricordo che, molti anni fa, si parlava ogni tanto dell’introduzione dello studio della lingua slovena nelle scuole italiane, e ogni volta la proposta era subito seguita da manifestazioni di protesta. Ma, con la presenza nell’Unione Europea di entrambi gli Stati, i tempi potrebbero essere finalmente maturi per riparlarne. Io credo infatti che l’opportunità che gli abitanti di due paesi confinanti parlino entrambe le loro lingue non abbia bisogno di spiegazioni e che sia tempo di abbandonare i nazionalismi che hanno inquinato finora questo discorso.