di Giorgio Ledovini
Il nuovo conflitto tra Armeni ed Azeri nel Nagorno Karabakh (Artsakh) pone, come in tutti i casi analoghi nel mondo, interrogativi e considerazioni che quasi sempre rimangono purtroppo fini a se stessi.
Il problema nasce anzitutto da una situazione di distribuzione etnica territoriale molto complessa frutto delle invasioni dell'area nella storia e delle varie dominazioni che esse hanno prodotto. Il territorio abitato dalle popolazioni armene, che nel primo secolo a.C. risultava molto vasto, poiché toccava il Mediterraneo Orientale, il Mar Caspio ed il Mar Nero, è oggi, dopo varie invasioni esterne, pogrom, conversioni di massa all'Islam, e non ultimo il genocidio armeno da parte dei Turchi del 1914, spezzettato in varie aree. Il Nagorno Karabakh risulta così un'enclave a larga maggioranza armena in territorio azero. Ciò è avvenuto per la suddivisione statale della zona nei primi anni venti del '900, della quale sono responsabili sia le nazioni vincitrici della prima guerra mondiale che la Russia Sovietica, ultima dominatrice dell'area transcaucasica.
La logica di questa ed altre suddivisioni statali imposte era solo parzialmente incentrata sullo stato etnico culturale delle popolazioni. Incisero spesso considerazioni di carattere politico o militare, generando, come scrive la Carmen Palazzolo, nei singoli stati situazioni di minoranze normalmente non gestite in modo rispettoso dei loro diritti, generando spesso conflitti più o meno violenti e problematici.
Questi conflitti sono quindi dovuti quasi sempre all'applicazione rigida del concetto di nazionalità che, nel caso dell'area transcaucasica è avvenuta con le proclamazioni di indipendenza dei nuovi stati usciti dallo sfaldamento della Russia sovietica. Si è ripetuto qui quello che è avvenuto in Europa: la nascita e lo sviluppo delle nazioni non ha risolto, se non raramente, il problema delle minoranze di confine.
Ciò non bastasse, in questo caso, sia perché l'area è strategicamente importante, sia per la presenza di risorse naturali, le nazioni più forti, in primis Russia e Turchia, stanno continuando a metterci lo zampino. Oggi chi agisce di più è la Turchia che, in linea con una ambiziosa politica di espansione, fornisce armi all'Azerbaigian, mentre la Russia sta dietro all'Armenia, anche se al momento con un profilo basso.
Questi conflitti tra popoli con etnie e culture diverse mi ricordano gli storici problemi del nostro confine nord orientale. Penso allora ad un bellissimo libro di Egidio Ivetiċ (professore polesano presso l'Università di Padova),"Oltremare - L'Istria nell'ultimo dominio veneto", nel quale egli trattando dell'Istria del '700 introduce il concetto di equilibrio tra culture perpetuatosi per secoli in una regione con una distribuzione a macchia di leopardo di paesi a maggioranza slava vicini a quelli a maggioranza italiana. Il fatto che ci possa esser stata questa coesistenza tra Italiani e Slavi così a lungo senza grosse turbative né sconvolgimenti, aggiungo io, significa che è possibile la compresenza di culture diverse in un certo territorio. È materia per i sociologi: si tratta di capire quali elementi possano unire o almeno rendere innocua la vicinanza di culture diverse e quali invece influiscano negativamente. È però un fatto che nel caso istriano l'equilibrio è saltato con la degenerazione del concetto di nazionalità in nazionalismo, a supporto di politiche di potenza ed espansionismo. Nel Nagorno Karabakh la logica è la stessa: un rapporto tra culture che è durato, nel bene e nel male, più di un millennio viene esacerbato e messo in crisi per gli stessi motivi. Politiche di tipo nazionalistico, di cui viene impregnata la società, magari appoggiandosi strumentalmente alle differenze religiose, hanno creato anche in questo caso un clima di odio verso l'altro con rottura dell'equilibrio di cui sopra pur sopravvivente da secoli.
Troppo spesso si assiste inoltre ad interferenze esterne nelle nazioni più deboli da parte di nazioni più forti, con aiuti in armi, sempre nell'ambito di equilibri e mire internazionali. La possibilità o meno di "interferire" dipende solamente dalla convenienza politica ed economica dei potenti di turno; qualsiasi considerazione morale relativamente ai diritti delle genti passa in seconda linea. C'è un solo "potente" che va oggi controcorrente poiché rifiuta questa logica, quella vox clamans in deserto di Papa Francesco.
Tuttavia ci sono strumenti internazionali per affrontare queste aree di crisi con maggior giustizia. Anzitutto la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo del 1948 che, se attuata fedelmente, ritengo sarebbe sufficiente per risolvere una buona fetta dei conflitti, nonostante essa si riferisca prevalentemente all'uomo come individuo, più che agli stati ed alle etnie. Senza dubbio è evidente inoltre la necessità di un rafforzamento con accordi opportuni dell'autorità di organi internazionali, in primis l'ONU, che era stato creato a suo tempo proprio allo scopo di intervenire ove ci siano conflitti. È ben vero che questi strumenti vengono spesso richiamati ed applicati a seconda della convenienza dei poteri in gioco, apparentemente per difendere dei diritti ma in realtà per proteggere degli interessi, con una disonestà intellettuale sconvolgente.
Chiudo con una domanda: possiamo concludere con una speranza nel cambiamento di queste logiche da parte delle generazioni a venire oppure rassegnarci con un sic transit gloria mundi?
Giorgio Ledovini
Trieste, 6/11/2020