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dei liberi pensatori

marito di Carmen Palazzolo

Non avevo ancora compiuto i sette anni ed ero arrivato per la prima volta a Cittanova, il luogo d’origine della famiglia De Bianchi, ospite dei nonni paterni Alessio Leone e Caterina. Del cognome della mia famiglia esistono le versioni de’ Bianchi, De Bianchi e Debianchi, che ora sono sparse per l’Italia, dove i vari membri di essa si sono stabiliti dopo l’esodo conseguente alla cessione dell’Istria alla Jugoslavia, anzi un suo membro, figlio di un de’ Bianchi e di una spagnola, si è stabilito, a quanto mi risulta, in Spagna.

Di sera, con la stanza del caminetto illuminata dal fuoco e da un lume a petrolio, la casa del Pozzetto, la piazzetta in cui si ergeva il palazzetto della famiglia, mi sembrava brutta ed oscura paragonandola a quella di Trieste, provvista di lumi a gas, e posta in cima alla Strada di Guardiella.

Dai nonni, oltre alla famiglia degli zii Isidoro e Amelia, rispettivamente fratello e cognata di mio padre, c’erano i figli Vinicio, Licia, Eunice, Fabiola, Tarcisio e Marisa Locatello, nipote di zia Amelia, i suoi genitori e una delle sorelle di mio padre, la zia Bianca.
Lo zio Isidoro era sempre via per lavoro, i nonni erano troppo anziani e la zia Amelia era pertanto la responsabile della disciplina e il fulcro di tutte le direttive.

Era di animo buono e generoso e, se in paese c’era un ammalato, offriva il suo aiuto anche per le veglie notturne.
Il giorno dopo del mio sbarco dal vapore, su ordine della zia Amelia, la zia Bianca provvide a raparmi con una macchinetta da barbiere che c’era in casa. Alle mie proteste, la zia Amelia replicò: “Xe per il tuo ben! Te vol ciapar i lais?”
Io seguivo il nonno in campagna, il campo era presso la sua ex cava di pietra, lo aiutavo a raccogliere gli ortaggi per la giornata e lui si caricava anche di una fascina. A me dava quasi sempre un lungo ramo di pino. Verso mezzogiorno, quando la giornata si faceva troppo calda, si rientrava a casa per il pranzo. Lui camminava davanti col suo carico, io dietro col mio ramo, trascinandolo lungo la strada per sollevare più polvere possibile.

Nelle estati successive, ed anche in primavera, quando ci sorprendeva qualche piovasco, cercavamo riparo in una casita posta all’inizio della cava. Il nonno si “coregava” sul fieno, io dalla porta guardavo i ciliegi, che lentamente si modificavano passando dai fiori ai frutti.

D’estate la casa nel Pozzetto diventava la base di una specie di colonia elioterapica. Se il tempo lo permetteva, la sveglia suonava presto. L’acqua era poca ma al risveglio io volevo lavarmi. “No – diceva la zia Amelia – te va al bagno e ti se lavarà con l’acqua de mar finché te sarà stufo”. E tutta la mularia, zia Bianca in testa, andava al bagno di Sant’Antonio. Quando i campanili delle chiese circostanti suonavano mezzogiorno, vedevamo comparire sulla strada che costeggiava il mare la zia Amelia col pianer del pranzo. Ad un segnale della zia Amelia, tutti si disponevano con i cucchiai attorno al tegame fumante, seduti sull’erba all’ombra degli alberi. Il riposo pomeridiano era d’obbligo e al rientro a casa passeri e ragazzi riempivano il Pozzetto dei loro stridi.
I nonni sedevano sul sento a lato dell’ingresso e seguivano i giochi dei ragazzi e i voli degli uccelli.

Queste vacanze estive si ripeterono per parecchi anni e rimasero nel ricordo di noi cugini come il paradiso terrestre.
Il padre di Marisa Locatello era l’autista di una famiglia bene di Trieste e guidava una splendida macchina scoperta.
La domenica successiva al mio arrivo andammo tutti a Daila in questa macchina: 5 adulti e 6 noi bambini, che stavano buoni e tranquilli per non disturbare gli adulti. Quella volta, alla nostra età, noi bambini sapevamo che turbare la quiete degli adulti poteva compromettere la gita. La mia prima gita in automobile!

Dai frati di Daila avemmo ottima accoglienza: la famiglia del nonno Alessio Leone era ben nota per laboriosità, onestà e pratica religiosa.

Un frate dalla lunga barba e con la severa veste dei Benedettini di Praglia ci portò nel frutteto.
Era la stagione delle ciliegie dell’anno 1931!

La zia Bianca, salita su di un albero, ne scuoteva i rami e le ciliegie cadevano intorno a noi e su di noi. Avevo scarpe bianche e un vestito bianco alla marinara. Un disastro per il mio abbigliamento! E un profumo e un sapore di ciliegie che sento ancora.
Un altro frate con una lunga barba bianca chiacchierava con gli zii e ci incoraggiava a mangiare.

Nessuno dei presenti conosceva a fondo la storia di quei luoghi e le ragioni che avevano indotto l’ultimo proprietario a lasciarla per testamento – intorno al 1858 - ai frati benedettini con l’obbligo di fondarvi e mantenervi una scuola elementare.
Alla fine del 1931 la mia famiglia cambiò casa e andò a vivere a Trieste in via del Donatello con la sorella di mio nonno. Nonna Regina, così la chiamavamo, ci raccontava sempre episodi della sua vita fra Cittanova e Trieste. Parlava spesso di Daila e della tragedia dell’ultimo proprietario della tenuta, il conte Grisoni di Capodistria. Raccontava che il conte aveva un unico figlio di nome Pompeo, che morì in un duello nei primi mesi del 1833 nei dintorni di Milano, mentre prestava servizio come ufficiale dell’esercito austro-ungarico.

È con viva emozione che nell’aprile 1970 trovai conferma dei racconti di nonna Regina in un articolo di Antonietta Drago, pubblicato sul n. 149 del mensile Historia dal titolo: “Milano 1833: Antefatto, Retroscena, Epilogo di un duello”.

Analoga rievocazione dei fatti si può leggere nel libro di Mons. Luigi Parentin, edito dal Centro Culturale Gian Rinaldo Carli: “incontri con l’Istria, la sua gente”, pag. 23/25.

Per completare la tragedia di Daila e spiegare come la storia di quel luogo sia collegata a quella della mia famiglia devo illustrare la personalità dei suoi principali attori, inquadrandoli nel loro tempo. Incomincio dal mio bisnonno Pietro (22.10.1823 – 12.12.1892). Nonna regina raccontava che suo padre era un uomo colto ma moto duro. Erede di una biblioteca di classici italiani e latini (finiti nella Parrocchia di Cittanova), affermava che la cultura non gli era servita a risolvere i problemi dell’esistenza e perciò non fece studiare nessuno dei figli. Il bisnonno Pietro si era sposato a 19 anni per amore con la coetanea Barnaba Maria (31.3.1823 – 27.7.1892), figlia di una ragazza che prestava servizio nel castello di Daila.

Pietro ebbe 8 figli, fra i quali c’erano mio nonno Alessio Leone (23.2.1859 ) e nonna Regina (5.12.1863).
A mano a mano che i suoi figli crescevano – assolta la scuola dell’obbligo, consistente a quei tempi nella III classe elementare - i maschi dovevano andare a lavorare nella cava di pietra della famiglia e le ragazze dovevano prepararsi al matrimonio.
L’attività principale di Pietro era costituita dall’estrazione e dal commercio della pietra bianca dell’Istria, che era molto usata nel Veneto come materiale da costruzione. L’inquietudine ereditata dal padre, la volontà di emergere, l’insoddisfazione per i limiti imposti dall’ambiente, la mancanza di rapporti adeguati alla sua cultura, erano tutti elementi che frustravano Pietro e l’emergere di culture diverse da quella veneta e italiana gli dimostravano l’inutilità di queste culture nella zona meridionale dell’Impero Austro-Ungarico. A ciò si devono aggiungere le crisi economiche conseguenti alle guerre del suo tempo.

Le guerre del 1859 e del 1866 avevano prima ridotto e poi definitivamente chiuso la possibilità di esportare materiali nel Veneto.
La cava di famiglia, che si trovava nei pressi di Stanzia Rosello, veniva chiamata La cocia e, finito il terreno interessato dai lavori di estrazione della pietra, cominciavano i campi, dove fervevano i lavori agricoli: orticultura e alberi da frutta. Una casita serviva da ricovero durante i temporali estivi.

Le pietre destinate all’esportazione venivano trasportate su carri fino al mare, dove venivano imbarcate sui bragozzi.
Pietro era un buon marinaio: sapeva governare barche a vela anche di grandi dimensioni e comandava armi a remi in occasione di regate o per salvare vite umane in occasione di tempeste con conseguenti naufragi.
Durante un fortunale al largo di Cittanova un bragozzo di Chioggia era ormai un relitto prossimo al naufragio. Con il suo armo Pietro riuscì a porre in salvo gli uomini. Per questo atto di coraggio l’imperatore Francesco Giuseppe gli conferì un’onorificenza al merito. In seguito, ogni domenica egli assisteva alla S. Messa con la croce appuntata sul petto. Era anche un buon tiratore e possedeva un fucile del tempo, sembra a pietra focaia.

Il 15 agosto 1853, al largo di Cittanova comparvero sei capodogli, che procedevano lentamente verso la costa, su cui si sarebbero arenati. Sparando dalla costa e dalla barca egli ne uccise più d’uno. Lo scheletro del più grande, fino ad alcuni anni or sono, era appeso al soffitto di una sala del Civico Museo di Storia Naturale di piazza Hortis a Trieste.

Aveva una volontà di ferro, un carattere orgoglioso, che spesso gli faceva trascurare i suoi interessi e quelli della famiglia. Era soggetto, in casi di avversità, a terribili manifestazioni d’ira, che spaventavano tutti e spesso riuscivano a risolvere i problemi.
Una mattina di primavera del 1870, Pietro era uscito in mare con la barca coi figli Alessio e Regina, rispettivamente di 11 e 7 anni. La dolce mattinata si trasformò improvvisamente in un inferno. Un violento Garbin sconvolse il mare e il cielo, subito gravido di pioggia. La pioggia e le onde infierivano sull’imbarcazione. I ragazzi, scalzi, comandati a remare dalla computa di prima, scivolavano sul catrame del rivestimento e Pietro, remando ritto al centro della sentina urlava scandendo il tempo e alternando minacce ad improperi. A quasi ottant’anni nonna Regina ricordava che il padre in quell’occasione sembrava un mostro e che quella volta ebbe più paura di lui che del fortunale. In qualche modo riuscirono a rientrare nel porto e la vita fu salva.

Ormai ultracinquantenne, aveva introdotto nel lavoro e negli affari il figlio primogenito Felice (20.12.1849). Il giovane, povero di fiorini ma ricco di tante voglie, riscosse un giorno un credito per il padre e lo tenne per sé. Quando Pietro lo seppe aggredì il figlio con una sciabola e Felice si difese impugnando una sedia e parando i colpi alla meno peggio. Il singolare duello si risolse con la distruzione della sedia e un improvviso malore di Pietro. Il figlio se ne andò da casa con la sua manciata di fiorini e si creò altrove una notevole fortuna.

Nonna Regina raccontava che durante i suoi rari giochi in Pozzetto, specie nelle giornate di mercato, compariva talvolta un vecchio signore con un abito nero molto elegante e che le donne del vicinato le dicevano: “Guarda to’ nono!”
Un giorno questo signore chiese di entrare in casa di Pietro per un colloquio col padrone di casa. Pietro e il conte si fronteggiarono nella stanza del caminetto. Al primo era noto che il conte era stato un peccatore e che la sua fortuna non aveva origini del tutto limpide. Al secondo la posizione sociale conferiva autorità e sufficienza nei confronti dei sottoposti e della gente comune. Veniva da Pietro per compiere un dovere e riparare ad un torto. La tradizione familiare raccolta da nonna
Regina vuole che il colloquio si sia svolto nel seguente modo:

Piero, vu savè che el mio unico fio xe morto?
E Pietro di rimando: Sior conte la riverisso e ghe fasso le mie condolianse.
E il conte: Vu savè che vostra moglie Maria xe mia fia?
Sior conte lo so e so anca che apena nata la gavè messa da bando.
E il conte: Mi volaria remediar al mal fato e volaria darve Daila. Acete?
Al che Pietro rispose: No, no voio pagar steure (tasse)! La ringrasio.
E il conte rispose: Come volè, ve saludo.
E Pietro: La riverisso.

Dopo questo colloquio, anni pieni di eventi tristi e di guerre passarono nella casa del Pozzetto ed ogni tanto Maria, nei tempi più duri, rimproverava a Pietro il fatto di non aver accettato il dono del padre. Un giorno, forse per tagliar corto, Pietro disse alla moglie di non menzionar più il nome di Daila perché quella terra era stata maledetta dalle sofferenze di tanta povera gente.
Le parole di Pietro mi hanno fatto riflettere a lungo e dopo varie ricerche spero di dar loro un corretto significato. I fatti e il comportamento delle persone più importanti del suo tempo e dei suoi luoghi chiariscono il discorso diretto a Maria. Pietro non diceva bugie né tranciava giudizi scorretti, nemmeno per scherzo. Era duro ma onesto sia nei confronti di se stesso sia nei confronti degli altri. Mons. Luigi Parentin a pag. 23 di Incontri con l’Istria la mia terra e la sua gente riferisce che Santo Grisoni (nonno di Pompeo) accumulò un enorme patrimonio, valutato a un milione di fiorini. Santo Grisoni, conte dal 1754, era anche un leguleio scaltro, che sempre la spuntò a proprio vantaggio contro il vescovo e il comune di Cittanova ed è probabile che usasse analogo comportamento nei confronti dei deboli e dei sottoposti.

Nel 1965 voli rivedere Cittanova. Visitai con i miei la cittadina, andai al cimitero sulla tomba di famiglia ed infine trovammo il Pozzetto. In paese aleggiavano gli aromi della cucina slava, la gente parlava un linguaggio aspro e per noi oscuro. La toponomastica era cambiata ed il Pozzetto era dedicato a certo Mate Balote, un personaggio estraneo a quei luoghi. Decisi di non tornare più a Cittanova e invece, circa dieci anni dopo, mia cugina Fabiola e suo marito Lucio ci dettero appuntamento a Cittanova, nel Pozzetto, a casa della signora Nevia. La casa della signora Nevia sembrava quella del nonno Alessio Leone e della zia Amelia: Un porto de mar. Ospiti e vicini entravano e uscivano continuamente dalla casa che, quando sentivano noi parlare in italiano, anche se avevano iniziato il discorso in croato, lo continuavano in italiano.

Lucio continuò a sollecitarmi a raggiungerlo a Cittanova. Io acconsentivo ma non ci tornavo mai.
Daila, il sogno di Maria Barnaba, si sarebbe comunque infranto in questo secolo, a partire dal1945. La tenuta e la villa di Dajla, ormai deruta e cadente, appartengono ai nuovi padroni dell’Istria. Il fabbricato principale è adibito a casa di riposo e vecchi cadenti che parlano un’altra lingua si aggirano nelle stanze che furono dei Grisoni e poi dei frati.
Ma, dopo un lungo contenzioso con la Chiesa cattolica, Dajla è ritornata all’Ordine dei Benedettini, che sembra l’adibiscano pure a locanda.

 

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