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dei liberi pensatori

di Carmen Palazzolo Debianchi

Ricorre quest’anno il centenario dell’impresa dannunziana di Fiume che, in pochissime parole, si può riassumere nella partenza da Ronchi per Fiume, nella notte fra l’11 e il 12 settembre 1919, di Gabriele D’Annunzio, alla testa di un gruppo di circa 2600 legionari per consegnare all’Italia la città, che una suddivisione a loro parere ingiusta del territorio alla Conferenza della Pace di Parigi aveva assegnato al neonato Regno dei Serbi Croati e Sloveni mentre il 60 % della popolazione era italiano. Da quest’evento Ronchi trasse l’aggiunta “dei Legionari”, che attualmente appartiene alla sua denominazione.

 

Per celebrare l’avvenimento fervono iniziative di ogni genere: conferenze, convegni, mostre,…

Anche l’Associazione delle Comunità Istriane di Trieste ha già ricordato l’evento ad èStoria di Gorizia nel maggio 2018,  con gli storici Diego Redivo e Giovanni Stelli e intende ancora parlarne nella sua sede triestina con una conferenza, mentre la città di Trieste ha allestito una mostra centrata sulla figura di Gabriele D’Annunzio.

Ma dietro all’audace “conquista” e fugace governo di Fiume da parte di D’Annunzio c’è  un’Italia stremata dalla guerra, in cui si andava diffondendo sempre più il desiderio di cambiamento e di partecipazione democratica da parte dei contadini e degli operai – non va dimenticato che è il periodo dello scoppio della rivoluzione russa –; il malcontento dei reduci, e in particolare degli ufficiali, che facevano fatica a riinserirsi nella vita civile ed erano insoddisfatti per il mancato riconoscimento del loro sacrificio in guerra; la crisi del partito liberale, incalzato dalla sempre maggior affermazione e diffusione dei partiti di massa. I risultati della Conferenza di Pace di Parigi, che avevano disatteso le aspettative degli italiani andavano inoltre diffondendo l’idea di una “vittoria mutilata”, di cui Gabriele D’Annunzio si fece il banditore. Fu quindi così che questi, dopo essersi procurato con uno stratagemma i mezzi di trasporto dall’autoparco di Palmanova, nella notte fra l’11 e il 12 settembre, partì da Rochi alla testa di un gruppo di granatieri che si erano acquartierati a Ronchi, dopo esser stati espulsi da Fiume in seguito a quanto stabilito nella Conferenza della Pace di Parigi, cosa che avevano vissuto come un’umiliazione, e di altri lì convenuti. 

Al posto  di blocco di Cantrida, alle porte di Fiume, il generale Vittorio Emanuele Pittaluga tentò di fermarlo con la minaccia di ricorrere alle armi, al che D’Annunzio, mostrandogli il suo nastrino della medaglia d’oro e il distintivo di mutilato rispose: “Generale, ella ha due mire. Dia l’ordine di sparare!” Pittaluga desistette e D’Annunzio, che era anche febbricitante, arrivò a Fiume verso mezzogiorno accolto da una folla esultante, che lo scortò al Palazzo del Governo. Il generale Pittalugalasciò la città dopo aver dichiarato formalmente sciolto il corpo di occupazione inter-alleato di Fiume di cui aveva il comando, e tutto il potere passò di fatto nelle mani di Gabriele D’Annunzio.Egli fece ammainare la bandiera degli alleati e innalzare quella italiana e si rivolse ai fiumani dal Palazzo del Governo proclamando la loro unione all’Italia con, fra le altre, le seguenti parole: 

«Italiani di Fiume! Nel mondo folle e vile, Fiume è oggi il segno della libertà; nel mondo folle e vile vi è una sola verità: e questa è Fiume; vi è un solo amore: e questo è Fiume! Fiume è come un faro luminoso che splende in mezzo ad un mare di abiezione... Io soldato, io volontario, io mutilato di guerra, credo di interpretare la volontà di tutto il sano popolo d'Italia proclamando l'annessione di Fiume.»

Per governare la città D'Annunzio costituì un "Gabinetto di Comando" al cui vertice pose Giovanni Giuriati

Il governo italiano guidato da Francesco Saverio Nitti disconobbe l'azione del Vate e, intenzionato a ottenere la resa e l'abbandono della città da parte dei legionari, nominò Commissario straordinario per la Venezia-Giulia Pietro Badoglio con il compito di risolvere la situazione. Il nuovo commissario straordinario fissò la propria sede a Trieste e come primo atto fece gettare dei volantini su Fiume in cui si minacciavano i legionari di essere considerati disertori e quindi di poter essere puniti dai Tribunali militari. L'ultimatum di Badoglio non sortì alcun effetto. Nitti decise allora di porre la città di Fiume sotto assedio impedendo l'afflusso di viveri. A ciò D'Annunzio rispose in maniera sprezzante chiamando in causa Nitti: «Impotente a domarci. Sua indecenza la Degenerazione adiposa si propone di affamare i bambini e le donne che con le bocche santificate gridano "Viva l'Italia"... Raccogliete pel popolo di Fiume viveri e denaro!»

  Quella di Fiume fu decisamente un’impresa militare, com’è dimostrato dal fatto che ai legionari di D’Annunzio si unirono lungo la strada molti militi spediti per fermarne l’avanza. E le diserzioni dei militari per unirsi a D’Annunzio continuarono. 

Al fine di risolvere la situazione, che si rendeva sempre più esplosiva, Nitti acconsentì a tentare una soluzione più diplomatica così, a partire dal 20 ottobre 1919, cominciarono degli incontri tra Badoglio e D'Annunzio, che durarono circa due mesi senza raggiungere alcun accordo.

Il 26 ottobre si tennero a Fiume le elezioni che videro scontrarsi le due principali compagini politiche: i fautori dell'annessione all'Italia guidati da Riccardo Gigante e gli autonomisti guidati da Riccardo Zanella. Vinse la lista annessionistica con circa il 77% dei consensi e Gigante divenne sindaco della città. 

Seguì un altro periodo di negoziati senza successo. Nel tentativo, ancora una volta, di risolvere la situazione, il Governo italiano fece affiggere sui muri della città dei manifesti in cui si rivolgeva ai fiumani  con, fra le altre, le seguenti parole: 

«L'annessione formale, oggi è assolutamente impossibile. Però il governo d'Italia assume solenne l'impegno e vi dà formale garanzia che l'annessione possa avvenire in un periodo prossimo... Cittadini! Se voi rifiutate queste proposte, voi comprometterete in modo fors'anche irreparabile la città, i vostri ideali, i vostri più vitali interessi. Decidete! Decidete voi, che siete figli e i padroni di voi e di Fiume, e non permettete, non tollerate che altri abusino del vostro nome, del vostro diritto, e degli interessi supremi d'Italia e di Fiume.» 

Fu quindi indetto un plebiscito che proponeva ai fiumani il quesito che segue: 

«È da accogliersi la proposta del governo italiano, dichiarata accettabile dal Consiglio nazionale nella seduta del 15 dicembre 1919, sciogliendo Gabriele d'Annunzio e i suoi legionari dal giuramento di tenere Fiume fino a che l'annessione non sia decretata e attuata?» 

il plebiscito fu però annullato da D’Annunzio per supposte irregolarità da entrambe le parti.

Seguì un periodo di stallo. 

La Reggenza Italiana del Carnaro

L'11 maggio cadde il governo presieduto da Francesco Saverio Nitti. Al suo posto subentrò un nuovo governo presieduto da Giovanni Giolitti, che si insediò il 15 maggio. E il 12 agosto 1920D'Annunzio promosse una nuova azione: la proclamazione della Reggenza Italiana del Carnarocon cuiveniva delineata una repubblica aconfessionale (anche se ogni tipo di culto era ammesso), democratica (guidata da sette rettori anche se era prevista in casi di necessità la possibilità che il comando fosse dato a un’unica persona), profondamente egualitaria e con evidenti richiami al modello sovietico, che D’Annunzio conosceva. L’aspetto più interessante della Carta della Reggenza del Carnaro era dato dalla totale assenza di discriminazioni e differenze. Tutti i cittadini erano davvero uguali fra loro, un principio oggi scontato ma che all’epoca rappresentava un unicum. L’articolo 2 riconosceva la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione. Alle donne fu concesso immediatamente il diritto al voto, conquista che in Italia fu faticosamente raggiunta solo nel 1946 ma l’universo femminile fu anche interessato dall’obbligo di prestare il servizio militare. La Carta garantiva la libertà di stampa, riunione, associazione e pensiero. Veniva riconosciuto il divorzio e la parità salariale fra uomini e donne. L’istruzione veniva garantita per tutti e gratuitamente. Particolare attenzione era riservata all’insegnamento della musica, che il Vate riteneva fondamentale nella formazione dell’uomo nuovo, di quell’uomo fiumano che avrebbe fatto da apripista alla rigenerazione di quello italiano. Dal punto di vista sociale la Carta del Carnaro prevedeva un’economia di tipo corporativistico(composta da dieci corporazioni) e un’originale rilettura della proprietà privata che lo Stato non riconosceva “come il dominio assoluto della persona sopra la cosa” ma la considerava “come la più utile delle funzioni sociali”. Il sistema economico e sociale fiumano prevedeva un fitto ed elaborato programma assistenziale verso le categorie più deboli, dai malati ai disabili passando, ovviamente, per gli anziani. Ma l’aspetto più innovativo dello statuto fiumano era certamente quello legato ai diritti e al clima di libertà che quella Carta emanava e che anni dopo fece dire allo storico Renzo De Felice che il Sessantotto italiano era nato a Fiume

Attratti dal clima libertario che vi si respirava, furono tanti gli artisti, i letterati, gli uomini di ingegno che si riversarono a Fiume, fra essi ci furono pure il poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti e lo scrittore Giovanni Comisso. 

Ma quel lembo di libertà non poteva durare, specie dopo la firma dell’accordofra l’Italia e il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveniavvenuta il 12 novembre 1920 aRapallo. Con esso nasceva lo Stato libero di Fiume, qualcosa di ben differente dall’entità libertaria e liberale concepita da D’Annunzio

Ma Giovanni Giolitti, convintosi – come scrisse nelle sue memorie - che era del tutto “inutile cercare di indurre alla persuasione D’Annunzio e i suoi compagni della necessità e del dovere di inchinarsi alle disposizioni del Trattato di Rapallo”, si decise ad agire. D’altra parte Fiume era per la vita italiana un rischio per il notevole numero di armi e munizioni che vi si trovavano e un vulnus che andava definitivamente suturato. 

il 24 dicembre 1920 truppe dell’esercito italiano, guidate dal generale Caviglia, iniziarono ad attaccare Fiume,prima con  un violento cannoneggiamento dal mare sulle istallazioni militari e di governo e poi con un vero e proprio assalto via terra. D’Annunzio chiamò tutti alla difesa della città, chiedendo di resistere disperatamente ma, dopo giorni di scontri la resistenza dei legionari fu piegata e D’annunzio poco dopo capitolò.Rimasto lievemente ferito, stanco, demoralizzato e deluso da un popolo che “non si cura[va] di distogliere neppure per un attimo dalle gozzoviglie natalizie la sua ingordigia”, alzò definitivamente bandiera bianca. La popolazione fiumana, d’altra parte, non condivideva più gli idilliaci propositi del poeta, aveva fame e anelava a una vita, magari meno entusiasmante, ma assolutamente normale. Alla fine di quella breve guerra, che per la prima volta aveva messo gli italiani l’uno contro l’altro lasciando sul campo oltre cinquanta morti, la libera e anarchica Fiume cadde per sempre. L’ultimo giorno del 1920 fu firmato l’accordo definitivo che prevedeva la nascita di un governo provvisorio. Il 18 gennaio 1921 D’Annunzio pronunciò dal balcone del Palazzo del Governo il suo ultimo discorso e poche ore dopo lasciò la città a bordo di una macchina dirigendosi verso Venezia.

Fonti:

  • Giovanni Stelli, Storia di Fiume, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 2017
  • Htpps:www.passaggilenti.com/STORIE IN CAMMINO/D’Annunzio e la Reggenza del Carnaro di Maurizio Carvigno

 

 

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