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Trieste, 26 febbraio 2020

Celebrazione del disastro minerario di Arsia del 28 febbraio 1940

Secondo il programma, la celebrazione del disastro minerario di Arsia doveva avere quest’anno a Trieste grande solennità. Grazie all’interessamento dei Maestri del Lavoro - e in particolare di Michele Maddalena di Formia - è stata infatti costruita una campana che, dopo esser stata benedetta dal Papa, ha risalito la penisola e, il 26 febbraio, nella piazza dell’Unità d’Italia di Trieste, alla presenza del vescovo e delle maggiori autorità regionali e comunali civili e militari, doveva suonare 185 rintocchi, quante sono state le vittime della disgrazia del 1940. Il manufatto avrebbe poi dovuto essere trasportato ad Arsia, ora in Croazia, per essere lì posizionato in una sede adeguata.

Ma la suggestiva e importante manifestazione non ha potuto essere celebrata a causa del rischio di contagio del coronavirus COVID-2019, che ha indotto il presidente della Regione del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga ad emanare un provvedimento che ordinava la proibizione di tutte le manifestazioni e iniziative pubbliche, oltre alla chiusura delle scuole di ogni ordine e grado e dei servizi educativi per l’infanzia. 

La cerimonia pubblica è stata dunque rinviata al prossimo novembre ma, per gentile concessione del vescovo di Trieste mons. Gianpaolo Crepaldi, la campana è stata portata nell’ex seminario, dove è stata da lui benedetta alla presenza del sindaco della città Roberto Dipiazza, dell’assessore comunale alle risorse umane, servizi demografici e affari zoofili Michele Lobianco, del consigliere comunale Salvatore Porro, del console regionale del fvg dei Maestri del Lavoro e da quello della provincia di Trieste, Mario Caporale e Roberto Gerin e di un ristretto numero di invitati. La campana è stata poi portata nel palazzo del Municipio, dove è stata accolta, assieme al sindaco, dal prefetto Valerio Valenti, dall’assessore regionale Pierpaolo Roberti e dal presidente del Circolo Istria Livio Dorigo. Il manufatto rimarrà esposto al pubblico nel palazzo comunale fino a novembre.

Ma a questo punto mi sembra doveroso descrivere la città di Arsia e raccontare, per chi ancora non lo sa, che cosa vi accadde il 28 febbraio 1940.

La città di Arsia (Raša)

Arsia si trova ora in Croazia ed è denominata Raša, ma all’epoca del disastro era in Italia, nella zona carbonifera della Valle dell’Arsa, fiume che scende dalle pendici del Monte Maggiore ingrossandosi lungo il percorso grazie alla confluenza di vari torrenti e poi sfocia nel Canale dell’Arsa, che segue il tracciato di un’antica valle sommersa. In epoca romana, dopo Augusto, il Canale dell’Arsa segnò il confine della Decima Regio Venetia et Histria.

Essa è la città più recente dell’Istria, costruita tra il 1936 e il 1937, durante il governo fascista, in una zona alla foce del fiume, paludosa fino  1935 e poi bonificata. Il suo nome originale era Liburnia. Fu progettata in base ai più moderni principi dell'urbanistica e dell'architettura dall'architetto Gustavo Pulitzer Finali di Trieste per far risparmiare ai minatori il tempo del viaggio di andata e ritorno dalla casa al lavoro e per avere sul posto tutti i servizi necessari alla loro vita, dal  lavoro alla famiglia, al tempo libero, dalle cure mediche. Due terzi di quest'insediamento urbano erano destinati a fini residenziali con le case dei lavoratori e le ville dei dirigenti, mentre a sud del paese si trovava la zona industriale con l'edificio amministrativo della miniera, la centrale elettrica e altri edifici. Fu costruita pure una chiesa, dedicata a Santa Barbara, patrona dei minatori, la cui forma ricorda un carro minerario rovesciato, mentre il campanile ricorda una lampada da miniera. 

Una notizia interessante è costituita dal fatto che in questo paese, dal momento che ci viveva un consistente numero di persone di etnia istro-rumena, fu aperta l’unica scuola istro-rumena d’Istria, che funzionò dal 1922 al 1947.

Le miniere dell’Arsa

All’epoca, il bacino dell’Arsa era il più grande impianto estrattivo carbonifero d’Italia, così importante da far dichiarare ad Alcide de Gasperi, nell’intervento per la definizione dei confini italiani a Parigi, nel 1946, la disponibilità dell’Italia ad accettare la linea confinaria proposta dal presidente americano Wilson, purché all’Italia fosse concesso di mantenere le miniere dell’Arsa, da cui proveniva alla nazione l’80 % della produzione di carbone.

E in queste miniere, alle ore 4,30 del mattino del 28 febbraio 1940 avvennero una serie di scoppi di grisù dal basso verso l’alto e in senso orizzontale, subito accompagnati da incendi e crolli sotto ai quali perirono 185 persone, nonostante i soccorsi partiti immediatamente ma, purtroppo, non tecnicamente adeguati, perché le procedure d'emergenza non erano previste e quindi non c'era personale preparato ad affrontarle, non c'erano maschere antigas, che arrivarono dai cantieri di Monfalcone, mentre i filtri per le maschere arrivarono da Venezia in aeroplano, 48 ore dopo l’incidente e i pompieri dovettero arrivare da Fiume. 

Le cause dell’incidente non sono state mai perfettamente chiarite; secondo i R. Carabinieri sono da attribuire alla riduzione delle misure di sicurezza, conseguenti all’intensificazione della produzione, resasi necessaria a causa dello scoppio della II Guerra mondiale, che aveva bloccato le navi carboniere dalla Germania verso l’Italia.
Oltre a questo, le cause sono da imputarsi agli orari particolarmente gravosi e all’adozione delle regole di organizzazione del lavoro Anbiden, Bedaux e Stakanov, miranti alla massima produzione senta tenere nella debita considerazione gli aspetti umani e quelli inerenti la sicurezza.

Eppure, di questo terribile disastro, il più grave della storia mineraria europea, le cronache locali e nazionali del tempo non parlarono quasi: il Piccolo di Trieste le dedicò 30 righe in 2a pagina, con un titolo su due colonne, riducendo a 60 le vittime e ad un centinaio i feriti lievi, mentre mise in rilievo la tempestività dei soccorsi, guidati dai dirigenti delle miniere, immediatamente intervenuti, con cameratesca abnegazione ed ammirevole slancio, il comportamento della popolazione dei minatori, che mantiene una calma esemplare dando prova di virile senso di consapevolezza e la immediata presenza in loco delle autorità, Il Piccolo del 1° marzo prosegue segnalando la presenza sul posto del Sottosegretario Cianetti e della ripresa dei lavori. La scarsa rilevanza data all’evento fu probabilmente dovuta alla difficile congiuntura politica del tempo per l’imminente entrata in guerra dell’Italia, alla quale erano quindi rivolti i pensieri della gente e dei cronisti. E in seguito, a causa della cessione della zona alla Jugoslavia, alla fine del secondo conflitto mondiale, sembra esser avvenuta una sorta di rimozione dell’avvenimento, in quanto i morti dell’Arsia furono considerati croati dall’Italia, italiani e per di più fascisti dai croati. In realtà tra i 185 caduti vi furono italiani, sloveni e croati, nonché immigrati da tutto il Nord Italia, dalla Toscana e dalla Sardegna. 

Intorno al 2000, per iniziativa del presidente del Circolo di Cultura Istro-Veneto “Istria” Livio Dorigo, del suo vicepresidente Fabio Scropetta e della Comunità degli Italiani di Albona, si cominciò a commemorare l’evento con una manifestazione sul posto, che nel corso degli anni si è sviluppata fino all’evento del 2020. Il suddetto Circolo ha inoltre editato un volume sull’argomento nel 2007, che è stato appena ristampato con gli ultimi aggiornamenti. Ma anche altri ne hanno scritto, fra i quali Antonio Zet. 

 

 

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