di Chiara Vigini
Si potrebbe scrivere molto su Sergio Marchionne, prendendo in considerazione molti aspetti anche controversi del suo agire e del suo pensare. Si possono anche mettere in luce degli aspetti interessanti e positivi per gli istriani esuli di seconda generazione come me, pur senza voler fare giustizia del personaggio che è stato.
Al di là quindi delle competenze e funzioni manageriali che l’hanno reso noto in tutto il mondo, vari servizi hanno focalizzato alcuni tratti della sua personalità e alcune idee che, pur non uscendo dalla traccia della sua esperienza manageriale, richiamavano la terra e l’ambiente istriano da cui proveniva la madre, toccata dalla tragedia confinaria della guerra e dell’immediato dopoguerra in Istria, come è noto.
La prima lezione che si può trarre dalle sue interviste è quella dei valori. “Ho tenuto conto dei valori alla base della mia educazione: serietà, onestà, senso del dovere, disciplina, spirito di servizio”, aveva detto nell’ultima uscita pubblica. E ancora, in altra occasione: “i diritti del manager sono due: scegliere le persone con cui lavorare e scegliere i valori, tutti gli altri sono obblighi”.
Non sempre il suo parlare era immediatamente intellegibile, talvolta erano parole un po’ stentate, in parte frammentarie, quasi balbuzienti - non che non gli venissero in mente le parole: chissà in quante lingue gli venivano in mente - ma le idee che ci stavano dietro erano sempre chiarissime.
La seconda lezione è quella dell’amor patrio: non un sentimentalismo fine a se stesso, ma rendere grande questa nostra Italia, ognuno nel settore di propria competenza. “La domanda da farsi alla sera è: il Paese sta meglio o no?”. E ancora: “Dobbiamo smettere di vergognarci di essere italiani: andiamo a misurarci di fuori e a competere!… La nostra importanza viene misurata a livello globale e non nazionale”.
Quella del lavoro è una lezione che nei nostri ambienti si conosce molto bene e piace che Marchionne sia stato un lavoratore indefesso, senza peraltro perdere di vista la centralità della persona. Tra gli obblighi del suo stato riteneva quello di essere in fabbrica alle sei del mattino e talvolta anche prima, e uscirne alle nove di sera. Perché al centro, “la cosa più importante della nostra azienda è il capitale umano” e “non è questione di quante ore lavora un manager, ma di dare un esempio ai dipendenti”, perché “se sei credibile come gestore, puoi dare i tuoi ritmi e segnare le scadenze, perché l’azienda poi ti viene dietro, si adatta”. Salvo quelli che rimangono fuori, ahimè! Ma la società ricalca in molti aspetti la vita di un’azienda, dove l’esempio di uno può trascinare molti altri.
Ancora: Marchionne ha parlato di integrazione di culture, di ricchezze nella diversità. Alla domanda se non gli dispiaceva (nel 2004) di aver costretto la sua famiglia, i suoi figli a muoversi, a spostarsi nel mondo dietro a lui, a vivere senza radici, rispondeva che “le radici dei figli sono nella famiglia. La questione culturale è un’altra cosa, ma è certo un arricchimento per loro che sono nati in Canada, ora vivere in Svizzera”. Da meditare.
I valori non basta averi, bisogna trafficarli senza paura, farli fruttare lavorando sodo, con maturità, responsabilità e apertura mentale, con “una visione - ha detto il Presidente Mattarella ricordandolo - oltre l’orizzonte”.
Ecco le ricette del “risanatore d’aziende”, come era conosciuto nel mondo: “Rompere gli schemi e rovesciare i giochi continuamente è essenziale”, ha detto alla Bocconi di Milano, “togliere tutti i dirigenti che rappresentano il passato. Non è questione di età: il potere corrompe… Avere lo stomaco per fare e per gestire la velocità del cambiamento… No paure e no pregiudizi: questa è la carta di identità del manager”. “Innovare può esistere solo in un contesto di cose che si fanno. Non bisogna avere paura di avere visioni”.
Non che non avesse paura, ma dichiarava con semplicità: “Dopo aver parlato ed essersi accordato e aver condiviso tutto con tutti, il leader deve decidere da solo. Fa paura, la prima volta, poi ci si abitua”.
Ha interrogato l’opinione pubblica italiana facendo più volte saltare i nervi - e gli accordi - ai sindacati, ma quando nel 2004 ha preso in mano una FIAT fortemente in deficit, girava per le fabbriche la mattina prestissimo per vedere gli ambienti degli operai, i ritrovi, i servizi e in molti casi li faceva riadattare: “Come si può pretendere che gli operai lavorino in luoghi indecenti?”. La persona al centro non era tanto per dire, ma diventava il suo “fare”. In questo senso credo si possa dire che era un uomo di pace, di quella pace che fin dai primordi dell’uomo è un comandamento positivo, non è un divieto: la si costruisce poco alla volta, è una ricerca, bisogna volerla intensamente e perseguirla al di sopra di tutto.
Di fronte a queste lezioni, mi sembra che Marchionne abbia vissuto perfettamente la sua sobria istrianità, senza mai sbandierarla, e mi sorgono degli interrogativi su di me - esule di seconda generazione come lui - e sugli ambienti dell’associazionismo istriano che frequento, quasi che potesse illuminare il nostro modo di vivere e di comportarci.
Certo è vero che Marchionne in tutte le occasioni che ho citato aveva presente la logica economica, l’azienda e il proprio ruolo, ma che ne direbbe di certi atteggiamenti e diritti ancora accampati dagli esuli: recriminazione e rancori, diritto di perpetuo risarcimento, diritto di restare divisi in modo campanilistico (un giornaletto per ogni paese lasciato, sedi diverse con sempre meno partecipanti...), diritto (a Trieste) di avere il bus gratis… Ho la netta impressione che se la caverebbe con una battuta sorridente, come a chi gli chiedeva se pensasse di entrare in politica: “Io? Mai!”.
Però non tutti possiamo essere leader e general manager e se l’azienda può essere un paradigma della vita, qualcuno deve pur occuparsi anche di queste altre cose, senza tralasciare però delle lezioni di valori, di allargamento, di pace, che devono valere per ogni ambiente, per ogni occasione.
Allora fatte le debite trasposizioni, cosa ci potrebbe dire sulle nostre questioni?
Non ci direbbe forse di non avere paura di perdere l’identità nel rapporto con gli altri? Di non temere la contaminazione, che “integrare la cultura è essenziale”? A Trieste non direbbe di riconoscersi come un arroccato crocevia di diversità, e di aprirsi? Non ci direbbe di muoversi, che chi si immobilizza non vede neanche al di qua dell’orizzonte?
Ai nostri diritti forse ci farebbe presenti i doveri relativi al luogo in cui abitiamo: vivere in pienezza un confine che ormai esiste solo nella testa di alcuni - e purtroppo, in questi weekend estivi sul Dragogna - rimanere in contatto con gli altri italiani, molti dei quali per lunghi anni ingiustamente maltrattati, arricchirci di questo contatto. Costruire rapporti fuori dai nostri piccoli mondi con chi è diverso da noi, con chi parla altre lingue ma ci è accanto.
Forse tacerebbe anche sui “beni abbandonati” o ci inviterebbe a smettere di pretendere da questa Patria, dalla quale abbiamo anche molto ricevuto, e in un momento in cui tanti, tra cui i suoi stessi familiari, dovevano decidere di lasciarla.
La sua più grande lezione, quelle che le permea tutte quante è forse quella del lavoro, del fare. Era un uomo del “fare”. Forse Marchionne ci inviterebbe a disertare tavoli di concertazione che si trasformano ben presto in occasioni di sterile litigiosità, mettono le associazioni le une contro le altre e tengono in stallo tutti. Forse ci direbbe di impegnarci, invece, nel percorrere coraggiosamente qualche strada innovativa da tracciare lungo l’Adriatico orientale, dove lavorare senza riserve e senza paure, costruendo quella pace dinamica e lucente a cui incoraggiava i giovani: “Rassegnarsi a una vita mediocre non vale mai la pena”.
Chiara Vigini