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dei liberi pensatori

di Isabella Flego

Guardo alla mia vita passata come a una città lontana immersa nella nebbia, con la paura di perderla, come una volta avevo perso nel sonno il volto di mia madre, donna di vecchio stampo che mi scaldava il letto con un mattone e ricamava la miseria con fili di speranza, e mi ero svegliata angosciata e impaurita. Ma la guardo pure al pari di un luogo solitario che offre l’esilio e la solitudine alla coscienza. Questa vuole sapere della mia vera identità, l’entità dell’anima e le sue parole, per rassicurarmi di essere vissuta e di vivere.

Nel mio angolo domestico posso colorare tutto di sole artificiale e cullare le frasi, mentre scrivo, con una dolce ninnananna, anche quando dall’alto del presente, preoccupata del male e dell’ingiustizia del mondo, mi raggiungono notizie angoscianti per l’oggi e per il domani e gettano grandi silenzi nel mio dialogo interiore.

Quasi sempre erro incerta tra gli avvenimenti quotidiani, trincerati al di là del mondo delle parole, mai madrelingua per il profondo di stati d’animo, e mi soffermo a meditare; trovo che non si distingue più ciò che è transitorio da ciò che è definitivo. Ma il mondo delle parole è magico; se vi entra nella condivisione, diventa un paesaggio con dei tratti noti da ritrovare anche in momenti particolari, come quello riguardante la ricorrenza della sciagura mineraria di Arsia del 28 febbraio 1940, con ben 185 vittime, le cui ombre, vestigia di un destino crudele, hanno riempito la valle d’Arsa, ma volutamente ignorate per decenni, nascoste sotto il tappeto della noncuranza, tra muri di ostilità eretti nei confronti dei minatori deceduti, dipendenti dello Stato italiano, e della cittadina, perché opera del periodo fascista. 

Grazie alla Comunità degli Italiani di Albona e dal Circolo di  cultura istro-veneta di Trieste, dal 2007 la ricorrenza, importante perché ha rotto il silenzio di troppi decenni imposto dagli assurdi eventi storici e ha riempito un tragico vuoto, è divenuta l’evento incontro annuale per eccellenza. Quel vuoto continua a riempirsi per creare  spazi di libertà e di reciproco riconoscimento. In seguito, pure la Regione Friuli-Venezia Giulia si è inserita attivamente nelle manifestazioni. 

Per un senso di dignità della mia famiglia di minatori, guardo al mondo dell’infanzia, alla perduta innocenza e a quello dell’adolescenza con un senso particolare. Quel mondo mi ha lasciato, accanto al rumore della guerra e quelli del trenino e della sirena della miniera, (la cui voce odo ancora quando ci ripenso), l’odore di mamma e i profumi di casa mia. Mi ha insegnato ad amare le piccole cose, a rispettare le persone, la dignità del lavoro e della miseria degli onesti e di non serbare rancore in famiglia. Ecco perché accanto alla mia realtà, anche se le epoche si scoloriscono, scorrono pure Arsia e la miniera, che cerco di inserire qua e là nei miei scritti. 

Quest’anno, nel mese di marzo, grazie proprio all’iniziativa del Friuli Venezia-Giulia, le 185 vittime, perite nel 1940 nel più grave incidente sul lavoro della storia d’Italia, sono state ricordate anche a Udine, dove l’Area Verde del Comune è stata intitolata prorio a loro, rompendo così per sempre un tragico silenzio. L’Area Verde del Comune di Udine rimarrà nel tempo un primo premio di riconoscimento e di valore, sul suolo dell’Italia, per i 185 minatori, periti nel compiere il proprio dovere. Un dolore e una tristezza da ricordare, uniti alla gratitudine per coloro che hanno voluto ricordare.

La memoria serve a crescere, a proteggerci e a trasferire alla generazione successiva, che vive, nell’attuale, una società trasformatasi da responsabile a società di sospetto, la nostra conoscenza.

Tante volte, come adesso, mi è pesato il ricordo insieme alla nostalgia di una cosa non ancora conosciuta: il riconoscimento del valore dei 185 morti, vittime del lavoro, da parte dei Governi italiano e jugoslavo. Quest’anno, nel seguire le notizie inerenti la commemorazione, esse si riempivano di passato, quel passato che porto ben impresso nella memoria, quale vita reale morta, con il ricordo mai spento, perché legato a forti emozioni e perché le tragedie lasciano segni eterni. E le distanze del tempo, consumate e levigate, tornano con presenze precise, con ciò che si vuole in silenzio.

Ho pensato ad Arsia e a quell’alba del 28 febbraio 1940 della mia infanzia lontana, come a un momento acceso di ricordi, un paesaggio di tinte crudeli, colmo di sincero dolore del mio paese natio, e mi sono vista infreddolita, tirata per mano da mia sorella lungo il viale dei platani, avvertendo il peso dell’irreparabilità di aver vissuto quel momento tra urla, lamenti, grida, pianti (anch’io piangevo) e tanta confusione. La sirena ululante squarciava le tenebre e emigrando per le vie, come un lungo respiro, entrava in ogni casa a ferire l’anima delle persone.

La tragedia non è stata soltanto una disgrazia capitata alla grande comunità dei minatori, agli altri; pure a noi in famiglia è mancato lo zio, marito della sorella di papà e padre di due cuginette, che come me guardavano la loro mamma piangere e disperarsi sotto il peso e la pena di tante giornate. Papà le adagiava la mano sulla spalla. Nel gesto era racchiusa tutta la sua pena, la rabbia e fors’anche la paura di tutto l’orrore che ben conosceva. Non lo diceva; papa mai è stato loquace, erano i suoi occhi a dire le cose, senza bisogno di parlare; si capiva dal suo atteggiamento che il rischio e il coraggio erano i compagni quotidiani della vita in miniera, alla quale, comunque, rivolgeva le sue preghiere, senza mai pensare di soggiogarla.

Ancora oggi il ricordo, dei due volti distrutti dal dolore, m’intenerisce; non perché ricordo soltanto, ma anche perché i gesti e l’umiltà, con cui papà trattava la sorella, li vedo e sento le mie emozioni. Anni dopo avevo capito che vivere per lui era un atto di coraggio e la vita stessa un atto di eroismo da compiere quotidianamente.

Papà aveva un legame inspiegabile con la miniera. Scese per la prima volta nel pozzo buio della miniera di Vines all’età di dodici anni, quasi tenuto per mano dal padre minatore. E quando nel 1965 chiusero per sempre quella di Arsia, con lo stupore dipinto sul viso, ebbe parole dure, come se avessero aggredito la sua lunga vita da minatore: 38 anni di fedeltà alle viscere della terra e di condivisione di giornate anche terribili. La miniera era l’ultimo filo che lo legava fortemente al grembo nero e oscuro di Arsia, al proprio mondo interiore cresciuto assieme ad esso, nello scavare chilometri di gallerie e corridoi, con la morte sempre in agguato.

Papà, perse quel filo importante, il paese invece ha perduto le sue caratteristiche di centro minerario, il più importante della Jugoslavia. Già nell’immediato dopoguerra  Arsia  aveva dovuto cambiare il suo aspetto, forgiata da tante parole nuove alle nostre orecchie e da una convivenza di gente “foresta”, forzata e imposta. Di giorno in giorno le parole si tingevano e gonfiavano di dittatura e andavano formando collane da appenderci al collo e a occupare tutto, entrando persino tra le pareti umide della miniera, dove papà aveva costruito un suo vocabolario utile e durevole nel tempo e che io ho imparato come fossero magiche, nate in un mondo fatato e di streghe dal quale tornava cigno nero degli abissi, dopo aver masticato tabacco e sputato il superfluo. Le altre parole “le nostre”, quelle di Arsia, nate e conservate con la sua storia, si assottigliavano sempre di più e si arrampicavano sulla nostra tristezza. Così Arsia, dall’anima italiana divenne un’altra cosa, anche se in essa respiravano italiani, croati e sloveni.

Arsia, è un ricordo per me e per tante altre famiglie e si sa, che sono i ricordi a smuovere gli individui, a renderli contenti o scontenti. Ed è stato proprio il ricordo, a risvegliare nelle persone sensibili e aperte al dialogo, a far tornare ad Arsia la memoria della tragedia, che per lunghi decenni era rimasta lontana dal rumore della terra e senza il silenzio del cielo.

Arsia per me non è soltanto il luogo della memoria dove evocare le assenze, è anche il luogo dell’innocenza; è parte di un passato importante, è il legame agli affetti, alle abitudini di famiglia, all’amore per la vita e alla mia identità.

Maggio, 2018

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