recensione di Anna Piccioni
Normalmente prima leggo il romanzo e poi eventualmente guardo il film; questa volta ho fatto all' in contrario, e devo ammettere che la trasposizione cinematografica ha rispettato il messaggio che Saramago ha voluto dare con “Cecità”: La coscienza morale che tanti dissennati hanno offeso e molti di più rinnegato, esiste ed è esistita sempre, non è un'invenzione dei filosofi del Quaternario, quando l'anima non era ancora un progetto confuso.. Con l'andar del tempo, più le attività di convivenza e gli scambi genetici, abbiamo finito col ficcare la coscienza nel colore del sangue e nel sale delle lacrime, e, come se non bastasse, degli occhi abbiamo fatto una sorta di specchi rivolti all'interno, con il risultato che, spesso, ci mostrano senza riserva ciò che stavamo cercando di negare con la bocca (pag. 25)
La storia è ambientata in una città non definita ai giorni nostri; ad un certo momento ad uno ad uno
gli abitanti perdono la vista in un'abbagliante biancore. In un primo momento le autorità fanno rinchiudere i primi contagiati in un ex manicomio, sorvegliati da guardie armate con l'ordine di sparare su chi non obbedisce. Tra tutti solo la moglie del dottore non è contagiata, ma gli altri non lo sanno. Quando l'epidemia colpirà chi governa e decide, i soldati e i loro capi, la centrale elettrica insomma tutte le istituzioni e i servizi scoppia il caos....
Saramago crea una situazione estrema, un ambiente distopico, terribile per dimostrare che l'umanità così evoluta appena il sistema si inceppa per un qualsiasi motivo fa saltare tutte le convenzioni sociali e uomini e donne abbruttiti dalla disperazione dimenticano i più elementari principi di solidarietà. La cosa che potrebbe salvarli in questo momento è riuscire ad organizzarsi per sopravvivere: la moglie del medico dice ai suoi compagni...anche il corpo è un sistema organizzato, è vivo finché si mantiene tale,e la morte non è altro che l'effetto di una disorganizzazione. E come potrà organizzarsi per vivere una società di ciechi...l'organizzarsi è già cominciare ad avere occhi.
I personaggi non hanno nomi propri, ma sono identificabili con l'attività o il ruolo che avevano prima di essere contagiati: il medico, la moglie del medico, il primo cieco, sua moglie, il bambino, il vecchio con la benda, il farmacista ...Probabilmente in questo modo Saramago accentua la mancanza di identità, in quanto non si vedono e non hanno sviluppato tutti gli altri sensi che per chi vive nel buio sono validi sostituti alla mancanza della vista
Un'ultima osservazione sullo stile: una scrittura continua con dialoghi non interrotti da doppi punti e virgolette, che almeno per quanto mi riguarda ha reso la lettura molto avvincente e coinvolgente in un crescendo di disperazione.