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DAL CONCERTO DI FRANCESCO SQUARCIA E ALEKSANDAR VALENČIĆ A VILLA PERLA DI LUSSINPICCOLO: IL DETTO E L'INESPRESSO NEL TESTO DI UNA CANZONE - di Patrizia Lucchi Vedaldi

Ieri sera (7 giugno 2024), nell'ambito delle molteplici e variegate iniziative promosse dalla Comunità degli Italiani di Lussinpiccolo, a 'Villa Perla' Francesco Squarcia e Aleksandar Valenčić ci hanno offerto un bellissimo concerto tanto per le musiche eseguite quanto per l’interpretazione. Il programma era molto impegnativo. Hanno spaziato dalla musica classica a quella leggera, fino a proporci in anteprima 'Amor lontan', l'ultima loro (Squarcia-Squarcia-Aleksandar Valenčić) che verrà presentata a Fiume la sera del 12 giugno in occasione della seconda edizione del Festival delle canzonette fiumane.

L'affiatamento tra Francesco e Aleksandar è grande e anche a Lussinpiccolo hanno saputo coinvolgere magistralmente il pubblico. Dal tango al valzer in un crescendo, sono approdati a “Carnevale di Venezia” accompagnato dal canto «Il mio cappello ha tre punte, ha tre punte il mio cappel, se non avesse tre punte, non sarebbe il mio cappel». Alla fine Francesco si è rivolto al pubblico dicendo: «Il mio cappello ha tre punte, anche il vostro ha tre punte?». Istintivamente a bassa voce ho risposto di si, ma poi mi sono chiesta: di quale cappello stiamo parlando? Del tricorno o di quello di un giullare?

L'ultima canzone composta da Francesco con arrangiamento di Aleksandar è dedicata a Fiume, la sua amatissima città, della quale, però, non pronuncia il nome. Francesco ci ha raccontato che si è ispirato a “1947” di Sergio Endrigo, canzone dedicata a Pola, all'esodo da Pola, la sua città, il cui nome non viene proposto nel testo: «Da quella volta non l'ho rivista più. Cosa sarà della mia città».

Sono così tornata con la mente al fatto che in più testi Endrigo non rivela il nome della città fonte della sua ispirazione. Quanti sanno che “Girotondo intorno al mondo” è ispirato a un episodio vero narrato nel romanzo di Louis Aragon “Le campane di Basilea”?

Ancora più interessante è il fatto che - a mio avviso - “L'Arca di Noè” trae spunto dalla strage di Vergarolla del 18 agosto 1946 e il conseguente abbandono di massa della città di Pola con il piroscafo “Toscana”. Se “1947” rappresenta l'esodo di un adulto che solo dopo anni può ripensare a quei fatti tragici, “L'Arca di Noè” è il crudo ma sfocato racconto dello scoppio pilotato delle mine, dei gabbiani che volano con in bocca brandelli di carne umana, e quindi di come un genitore preparò il figlio all'abbandono, proponendolo come un gioco familiare in compagnia del cane e del gatto. «Un volo di gabbiani telecomandati

E una spiaggia di conchiglie morte (…) Terra e mare, polvere bianca. Una città si è perduta nel deserto. La casa è vuota, non aspetta più nessuno. Che fatica essere uomini. Partirà, la nave partirà. Dove arriverà, questo non si sa. Sarà come l'Arca di Noè. il cane, il gatto, io e te»
Di quei giorni Endrigo ci ha lasciato probabilmente solo un nome “Teresa” la ragazzina di cui si dice si fosse innamorato quando, esule a Venezia con la madre rimasta vedova nel '39, raggiunse il Collegio Tommaseo di Brindisi.

 

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